Il lavoro contemporaneo 
         
        aaadi Maria Grazia Campari       
        
        
      Giosetta Fioroni  
            
       
        Il 3 marzo 2010 il Senato della Repubblica ha approvato in  via definitiva il disegno di legge 1167B, collegato alla legge di bilancio del  2010 che contiene disposizioni varie relative a tipologie varie di rapporti di  lavoro (pubblico, privato, di apprendistato, femminile, usurante, certificato  ecc), ma, soprattutto, relative al diritto di azione del lavoratore o della  lavoratrice contro disposizioni padronali che ritengano illegittime.      
         
        Non insultiamo la nostra intelligenza commentando questo  triste evento come se fosse un fulmine a ciel sereno e consideriamo, invece,  quali e quante siano state le condizioni predisponenti cui si è data adesione  tacita o esplicita da parte delle organizzazioni e dei soggetti singoli che  avrebbero dovuto contrastare la deriva.  
         
        Negli ultimi decenni l’offensiva politica del capitale  economico/finanziario si è posta l’obiettivo di frammentare il fronte del  lavoro. Obiettivo raggiunto attraverso il contrasto fra una pluralità di trattamenti  contrattuali applicabili a diverse categorie di lavoratori, spesso dotati dei  medesimi requisiti professionali e addetti a lavori  simili o persino identici. 
         
        Inizialmente, lavoratori detti “stabili” contrapposti ad  altri detti “flessibili”, i secondi presentati come vittime dei primi e dei  loro insostenibili privilegi, senza che mai il privilegio proprietario (dei  mezzi di produzione, degli strumenti finanziari) trovassero analoghi severi  censori. 
         
 Oggi, complice la  crisi, il fronte del lavoro va ricomponendosi nel segno di una diffusa  precarietà che si articola dalla grande  industria Alfa Romeo all’azienda artigiana metalmeccanica, al terziario più o  meno avanzato.  
 
Un’eguaglianza al ribasso - propiziata dai cantori  bipartisan delle politiche neoliberiste e della flexicurity – si presenta quale  cifra del mercato del lavoro contemporaneo e comunque non sazia l’ansia  performativa dei cultori della flessibilità al ribasso. Soccorre, allora, la  maggioranza governativa con le disposizioni della legge appena varata che,  secondo una recente consuetudine, contraddicono alcune fondamentali  disposizioni costituzionali. 
 
 In primo luogo la  tutela del lavoro in tutte le sue forme, assicurata dall’art. 35 della  Costituzione sul presupposto che nel contratto di lavoro il prestatore è il  soggetto socialmente debole cui vanno riconosciuti diritti e garanzie per  l’intero svolgimento del rapporto, dall’origine fino all’estinzione. Come?  Preferibilmente attraverso norme sovra ordinate rispetto a quelle contrattuali che  prevedano diritti soggetti ad una interpretazione giurisdizionale orientata dai  precetti costituzionali, tesi a raggiungere l’eguaglianza sostanziale dei  cittadini. 
 
Poiché nel rapporto di lavoro il contraente padronale  possiede i mezzi e l’organizzazione, è dotato della possibilità di dare  immediata attuazione (in autotutela) alle proprie decisioni, per un minimo di  equilibrio occorre che alla controparte priva di autotutela siano riconosciuti  i suoi contrapposti diritti dalla pronuncia di un giudice, interprete delle  norme legali e contrattuali in modo, come si è detto, costituzionalmente  orientato. 
 
In altre parole, l’effettività dei diritti di qualunque  prestatore di lavoro dipende strettamente dalla possibilità che un giudice  glieli riconosca e attribuisca attraverso una sentenza, a conclusione di un  giusto processo. Altrimenti qualsiasi diritto è come se non esistesse, è  destinato a restare sulla carta come una benevola ma inconsistente  dichiarazione di intenti. 
 
La negazione del processo del lavoro e della possibilità di  riconoscimento giudiziale dei diritti è l’esito che conseguirà ai contratti  stipulati dopo l’entrata in vigore della legge appena approvata la quale  prevede che all’atto della stipulazione del contratto di lavoro, le parti vi  possano inserire la “clausola compromissoria”, cioè prevedere la possibilità di  evitare il giudizio di un giudice, sottoponendo qualsiasi controversia relativa  al rapporto di lavoro al giudizio di un arbitro privato, chiamato a decidere  non secondo la legge  ma secondo equità. 
 
Facile prevedere l’adesione alla clausola di qualsiasi  lavoratore alla disperata ricerca di un impiego, facile anche prevedere da  quale parte penderà la bilancia della giustizia secondo equità resa da un  privato cittadino investito della controversia fra lavoratore e datore di  lavoro.  
Mentre, proprio per il favore al contraente più debole, il  codice di procedura civile esclude l’arbitrato nelle controversie che abbiano  ad oggetto diritti indisponibili, quali sono quelli (esistenziali) dei lavoratori  nel rapporto di lavoro.  
 
La nuova legge viola gli articoli 3 e 24 della Costituzione,  ma farà molte vittime inermi prima che una pronuncia in tal senso possa essere  emanata dalla Corte Costituzionale.  
 
Perché considero questa disposizione non del tutto  inaspettata? Perché essa ha avuto una regola predisponente nella precedente  norma relativa al diritto di azione del lavoratore, la norma che prevede per la  procedibilità del solo processo del lavoro ( e non di altri) il tentativo  obbligatorio di conciliazione, la richiesta, cioè, di arbitrato presso  l’Ufficio Provinciale del Lavoro e il termine dilatorio di sessanta giorni  dalla richiesta per poter iniziare la causa. Ciò anche nei casi urgentissimi di  licenziamenti illegittimi. 
 
Non ancora una negazione, ma una dilazione imposta al  contraente più debole nell’utilizzo della giurisdizione, anch’essa, secondo me,  violativa degli articoli 3 e 24 della Costituzione, mai sanzionata come tale  dalla Corte Costituzionale, malgrado ripetuti ricorsi. 
 
Nel diritto del lavoro dal processo prolungato al processo  negato, nel diritto penale dal processo lungo al processo breve, cioè negato.  In entrambi i casi, evidentemente, la negazione della giurisdizione significa  la cancellazione di qualsiasi diritto per i cittadini che non usano la forza,  ma subiscono l’arbitrio dei potenti. 
 
Per maggiore sicurezza, la legge non si limita a cancellare  garanzie per questa via, ma aggiunge disposizioni secondo cui nel processo (se  si riesce ad arrivarci) il giudice è compresso nella possibilità di rendere  giustizia secondo i consueti canoni interpretativi della legge poiché deve, in  alcuni casi, riferirsi senza discostarsi alla certificazione dei contratti di  lavoro, senza considerare il reale svolgimento del rapporto e, nei casi di disposizioni  padronali, ristrutturazioni e cessioni aziendali, limitarsi a verificare la  legittimità della motivazione addotta , escludendo qualsiasi sindacato nel  merito dei provvedimenti assunti. 
 
Una controriforma anti costituzionale, violativa dei  principi cardine dell’ordinamento giuridico, fortemente voluta dai cantori  bipartisan della modernità. 
 
Una situazione penalizzante in modo esponenziale per le  donne. 
 
Il nove marzo, nel corso della trasmissione televisiva  “Parla con me” la saggista Nadia Urbinati notava giustamente che  l’emarginazione femminile nel mondo del lavoro non dipende dalla mancanza di  leggi garantiste, che in Italia esistono, ma dall’esitazione femminile a  utilizzare il processo per farle valere e tentare l’affermazione dei propri  diritti. 
 
E’ una considerazione che condivido perché il dato emerge  anche dalla mia lunga esperienza sul campo come avvocata del lavoro  notoriamente femminista: poche donne credono di avere dei diritti, quindi,  fatalmente, li smarriscono e si smarriscono. 
 
Un altro caso di femminilizzazione della sfera pubblica, la  perdita del diritto processuale del lavoro, quindi la perdita del diritto del  lavoro. 
      
      
      
    13-02-2010  |